martedì 27 ottobre 2015

In senso orario

Primo gruppo Shoes Off Birmania di Vagabondo.
Agosto 2015. Parti con sconosciuti, una compagnia ristretta, sette in tutto provenienti dall'intero stivale, dal confine con la Svizzera alla Sicilia.
Arrivi a Yangon con un caldo sudatissimo che ti rimarrà appiccicato alla maglietta per le intere due settimane di viaggio, e trovi un traffico che a confronto il tamponamento all'ora di punta sul grande raccordo anulare è viabilità scorrevole. Doccia veloce per togliersi di dosso il jet lag (eliminare il sudore sai già che sarà una battaglia persa), e subito a visitare la prima pagoda, la prima di una lunga, lunghissima serie.
Impari subito che al cospetto del Buddha si arriva scalzi, senza scarpe né calzini, non importa se piove e ci sono le pozzanghere, non importa se calpesti cacche di scimmia o gatto, se devi usare un ascensore o le scale mobili, se devi attraversare un mercato o arrampicarti su rovine in mezzo ad una foresta, vai scalzo e pensa positivo, pensa che non prenderai nessuna malattia.
Solo nel primo pomeriggio ti fai fuori gigabyte di foto per immortalare l'oro che ricopre ogni millimetro degli edifici sacri, pungiglioni dorati che riempiono l'orizzonte fino a dove arriva lo sguardo. Tempo qualche giorno e avrai visto così tante foglie d'oro che ti ritroverai a pagare un solo biglietto, invece che sette, per avere il permesso di scattare foto, tanto ogni gruppo ha di sicuro colui che viene eletto fotografo ufficiale. Vedrai così tanti Buddha d'oro che alla fine ti serviranno gli occhiali da sole, e non potrai far altro che ridere di fronte all'ennesima statua talmente poco sobria che stonerebbe addirittura in un salotto rococò.
Non necessariamente in questo ordine impari anche che: i monaci hanno lo smartphone più figo del tuo, le persone hanno nomi assurdi e se si chiamano Gnegne ne vanno anche orgogliose, l'aria condizionata è così potente che se non ti copri per bene rischi di prenderti un febbrone (true story), la pronuncia corretta del saluto mingalabar è mingalabaaaaaaaaaaaaaaaaar con tonalità crescente, i bambini birmani parlano più facilmente italiano che inglese, la somma di tanti souvenir economici risulta in realtà in una spesa consistente e in una valigia strabordante (ma d'altronde le sciarpe ricordo non sono mai abbastanza e un vestito tradizionale che fai, non lo compri?).
Per quanto riguarda il cibo, scopri che la scelta è vastissima: si va dal riso ai noodles, alternati sapientemente a colazione a pranzo a cena. La birra must è la Myanmar, sia a pranzo che a merenda che all'aperitivo che a cena, perché l'alternativa sarebbe la degustazione di vini locali e quella decisamente non è un'opzione raccomandata. In realtà mangi a tratti bene, a tratti molto bene, e la cosa importante è non chiedersi mai cosa stai mangiando, tanto "in corpo c'è buio" e "quel che non ammazza ingrassa", almeno così la penso io e così dicono i proverbi a casa mia. E, fra parentesi, con tutto quello che sudi sfido veramente a ingrassare. Per momenti di disperazione ci sono quasi sempre ristoranti occidentali in agguato, ti accalappi pure un'ottima pizza a Bagan, ma facciamo due va, che ci ritorni volentieri in pizzeria in Birmania, fa molto chilometro zero.
I giorni passano e conosci un popolo sorridente, gentile, che ti saluta dalla strada mentre passi con l'autobus, che ti grida mingalabaaaaaaaaaaaaaar dalla barca sul lago, un popolo che non ha quasi niente ma è più contento di te il giorno che ti danno la tredicesima. Conosci un cielo con riflessi dorati, tramonti che ti illuminano gli occhi di una luce nuova, cominci sul serio a pensare positivo, impercettibilmente la tua vita inizia a muoversi lungo la strada del Buddha.
Quando meno te lo aspetti qualche passante ti ferma per strada e ti chiede di fare una foto insieme, non si sa bene per quale motivo, ma sei preparato a dar sfoggio del tuo profilo migliore. E sorridi, sorridi sempre, anche se sei scocciato o schifato o annoiato o stanco o triste, sorridi fino a quando sorriderai tanto da essere contento.
Ti intestardisci a fare foto alla distesa di pagode a Bagan, ne scatti una dopo l'altra, ad ogni minuto di tramonto che passa, perché speri di riuscire a riportare a casa quell'immagine unica, per la quale ti sei fatto un viaggio fin quasi all'altro capo del mondo. Dopo un po' realizzi che nemmeno un fotografo professionista sarebbe in grado di immortalare quella bellezza, quella pianura di storia e fede, quei templi di pietra che cercano di arrivare il più in alto possibile fino a toccare il Nirvana. E quindi niente, te ne rimani appollaiato su una pietra, sull'ultimo piano di una delle mille e mille pagode, con i piedi penzoloni verso il vuoto, e stai lì a guardare il sole che se ne va tranquillo, mentre le sagome degli stupa cambiano colore sulla linea dell'orizzonte. Tramonto dopo tramonto comprendi che ti porterai a casa molto di più di una foto venuta non troppo bene, ti porterai dietro la serenità e la semplicità di una terra che ti ha liberato il pensiero e che ti ha regalato una filosofia di vita.
Oramai sei quasi a fine viaggio e i tuoi compagni, da sconosciuti che erano, sono già amici dei tempi d'oro. Hai visto un numero spropositato di fabbriche dove producono: i tessuti, il filo di fior di loto, i pugnali, le barche, gli ombrelli di carta, le statue, la grappa, i sigari. Dimentico qualcosa? Ah, già, la fabbrica di foglie d'oro, dove addirittura fanno la crema per il viso con polvere di oro. Non ne puoi veramente più di pagode e statue del Buddha, le foto cominciano a sembrare tutte uguali, ti arrampichi sugli alberi e su sculture di ragni giganti per passare il tempo, giochi a nascondino in una grotta neanche avessi cinque anni, scrivi con pennarello indelebile sul muro della fabbrica di ombrelli di carta "Primo gruppo Vagabondo agosto 2015". Incredibilmente continui ad essere contento, nonostante la partenza si avvicini.
Torni a casa e non mangerai riso e noodles per qualche settimana, riprendi a lavorare e racconti a tutti che sei stato al monte Popa (dove sono andati anche quelli di Pechino Express), vivi di nuovo la tua vita quotidiana e pensi positivo. Ogni volta che dovrai fare il giro di qualcosa lo farai in senso orario, perché in Birmania ti hanno detto che porta bene, e se anche non fosse vero non importa, pensi positivo e vai in senso orario, inarrestabile, con il volto sorridente, il cuore allegro, la mente serena.

mercoledì 15 luglio 2015

Oversharing

Qualche mese fa ho conosciuto Roberto, un piccolo imprenditore che, alla soglia della pensione, ha deciso di comprarsi un casolare sperduto nel nulla per coltivare ulivi e far pascolare qualche pecora. Niente internet, niente televisore, solo un vecchio giradischi e una voluminosa collezione di vinili a riempire i suoi momenti liberi. Mi ha spiegato come fosse terrorizzato da questi tempi moderni, dal fatto che niente è più privato, personale, intimo. Voleva che gli spiegassi che cosa passa per la testa dei ragazzi e delle ragazze della mia generazione che se ne vanno a raccontare al mondo intero quello che hanno mangiato per cena (con foto allegata), e soprattutto come mai agli altri possa interessare saperlo. Mi ha chiesto quando è stato che la gente ha smesso di lottare per la propria indipendenza e libertà. 

L’oversharing, questa nuova corrente culturale che è cresciuta intorno a me e con la quale sono cresciuta, credo non differisca poi molto dalle correnti del passato, ha semplicemente la fortuna e la disgrazia di essere plasmata da una fetta di popolazione più vasta rispetto a quella dell’Illuminismo o del Romanticismo. Creiamo e condividiamo volontariamente la nostra identità, la lanciamo nell’etere con un click e la lasciamo lì in bella vista così che tutti la possano ammirare. Per sempre. Perché come ha detto qualcuno in rete, on the internet nothing never dies. L’oversharing è il nostro elisir di lunga vita, la nostra pietra filosofale, il nostro Grande Inquisitore. Siamo noi stessi che annulliamo la vita privata e ne siamo anche soddisfatti; inventatemi un altro social e mi iscrivo pure a quello. Rimaniamo basiti dallo scoprire che qualcuno non è su Facebook; vabbè avrai Twitter allora, no? wahtssapp? come sarebbe a dire che non hai un indirizzo e-mail? quindi praticamente non esisti, contento te. Invece con l’oversharing anche se uno muore la digital afterlife rimane, tutti lasciano il proprio segno nel mondo, tutti lo possono migliorare il mondo (basta solo usare il filtro giusto). Ci sta che sorgano nuovi interrogativi: potrò passare in eredità ai miei figli gli acquisti sull’AppleStore? verrà qualcuno a lasciare un messaggio o una gif ricordo nel cimitero virtuale? fra qualche secolo citeranno il mio blog in qualche articolo di antropologia? Situazioni che fino anche solo un’ora fa erano alquanto orwelliane, te le ritrovi in mano con il gadget appena uscito, nell’ultima app, nel nuovo meme. Non c’è più distinzione tra realtà e cyberspazio, il cyberspazio è reale, quasi tutta la nostra vita ne fa parte, e nel cyberspazio gironzoliamo ubriachi dalle informazioni di tutti, anche le nostre. L’account di Facebook è come un passaporto, ti permette di viaggiare ovunque, lo colleghi a Twitter e Instagram e se usi una nuova applicazione o un nuovo programma ti compare l’opzione “Accedi con Facebook”, così eviti anche quei dieci secondi in più per creare l’ennesimo profilo. Non importa sapere che c’è qualcuno che conserva ogni tua parola, ogni tua foto, ogni tuo messaggio, ci fa piacere che quel qualcuno conservi le nostre identità, pur manipolandole per i suoi interessi; ci basta solo che ci sia lasciata l’illusione della libertà di pensare, di creare e di condividere quello che si vuole. Usa i miei cookie, spammami, rubami il cvv della carta di credito, riempimi di elettrodi e sviluppa la nuova frontiera del neuromarketing, basta che mi metti un like, così cresco nei trend e magari è la pubblicità stessa che mi paga per lasciarle qualche pixel sulla pagina del mio profilo. 

Detto così sembra che non ne esca niente di buono da questo oversharing, ma come in tutte le cose ci sono due facce della medaglia. E quindi se condivido l’infinitesima foto del gatto che si distende sui libri e non mi fa studiare, posso anche condividere quello che studio. Certo, è più comodo avere un libro fisico, me lo sfoglio e me lo sottolineo, profuma di quel profumo che hanno i libri nuovi, e poi fa bella figura nella libreria, però guarda se ti vuoi approfondire un paio di argomenti ti passo il pdf del tomo di medicina interna, non stare a comprarlo, viene 200€. L’altro giorno il treno si è fermato, come al solito, e ha fatto un’ora e mezzo di ritardo; per fortuna avevo il tablet, ho scaricato questo ebook, un bel romanzo, te lo consiglio, se vuoi te lo metto su Dropbox. Ciao io esco, tanto il capitolo di biologia che devo studiare lo hanno aggiunto su un podcast di Oxford, me lo ascolto in palestra. Ma te l’hai capito cosa ha spiegato la prof di matematica? mah insomma, però ti giro questo link, è un tizio che studia all’MTI che ha fatto un canale YouTube con le ripetizioni di matematica, ci sta che se hai domande ti risponde anche in chat. Non c’è niente di nuovo in tv, soliti programmi, solite parole, solita Italia; se vuoi ascoltare qualche idea originale meglio se ti carichi in streaming una conferenza TED, sono gratis, risparmi anche sul canone. 

Ci lamentiamo di questa tecnologia che ha preso il sopravvento nelle nostre vite, ma allo stesso tempo non ne possiamo fare più a meno. C’è chi cento anni fa considerava l’elettricità una diavoleria e chi oggi considera internet la rovina dell’umanità: non c’è più privacy, siamo controllati 24h su 24, siamo in una gabbia cibernetica. Ma rivogliamo veramente la nostra libertà? Quella “libertà che gli uomini, nella semplicità e nella innata intemperanza loro, non possono neppur concepire, che essi temono e fuggono, giacché nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà” (I fratelli Karamazov). O forse vogliamo solo l’illusione di una scelta del genere, così da poter dare ragione a Dan Ariely e dimostrare che non siamo così razionali come crediamo quando prendiamo le nostre decisioni. 

Roberto si è arreso, dice che è vecchio ormai e non ha voglia di combattere contro la tecnologia spia. Mi ha confessato che a volte, mentre lavora nell’oliveto, alza la testa, fa una linguaccia e mostra il dito medio al cielo. Dice che se esiste un Dio, di certo lo sa che non ce l’ha con Lui, l’insulto è per quel satellite che scatta fotografie alla sua vita senza averne il permesso.